domenica 28 novembre 2010

Sebastian Arce e Mariana Montes: l'epifania del TANGO



… Vedere ballare Sebastian Arce e Mariana Montes, vuol dire assistere all’epifania del Tango. L’avvento, senza restrizioni o inutili orpelli, del Tango.


Una coppia che, oltre ad essere già da tempo entrata nell’olimpo degli artisti del 2x4, riesce a creare ad ogni esibizione, una magia irripetibile.


Dopo aver assistito ad Astintango Festival , a due interpretazioni di Sebastian y Mariana, mi sono trovato all’improvviso a percorrere mentalmente, l’evoluzione di questa coppia nell’ultimo decennio, e analizzando a mente fredda tutto ciò, mi sono accorto che avevo affrontato un tour virtuale nel tango stesso.


Recuerdo, e La milonga de Buenos Aires, i temi a cui mi riferisco, erano un compendio, ma non nel senso riduttivo del termine, dei vari stili del tango, con un fattore denominatore comune: ogni singolo momento, ogni passo, rasentano la perfezione e vivono come momento autonomo, in una bellezza e densità uniche. Dalla camminata al giro, dalla sacada al boleo, che Mariana disegna sul piso e nell’aria, c’è una liturgia del “punto d’arrivo”. Come se dopo aver ammirato l’esecuzione di un movimento si convenga all’impossibilità di ridurre quella forma ad altra possibilità.


In Sebastian c’è la consapevolezza e la sicurezza del tango. La semplice camminata che basta a rendere un ballo assoluto. Non autoreferenziale, ma in grado di far godere gli astanti di quella semplicità sublime che supera le piroette fuori tempo o illogiche di tanti esecutori meccanici senz’anima.


Chi è nel tango come me da tempo, riesce a scovare in questo Sebastian ultima maniera, tutto fuorchè manierista, le molteplici anime di questo ballo, che comunicano fra di loro in un orologio perfetto. È sottintesa la dinamica di una coppia rodata, ma che ha una dote straordinaria: mettersi sempre in discussione. Non sentirsi mai arrivati, ma sviscerare il tango nei suoi dettagli per svilupparne aspetti nascosti o sotterranei. Straordinario è l’uso dell’abrazo, e credo che pochi come Sebastian ne comprendano le potenzialità. Ricordo a proposito una piacevole conversazione sul tema.


Più passa il tempo e più resto fermamente convinto che il tango sia scritto nel destino di questi grandi artisti che riescono a far emergere l’anima, le sensazioni nascoste che sottendono a quest’arte.


Alcuni obietteranno che lasciare il destino nelle mani di pochi è un grande rischio, ma lo si può correre volentieri, se il contraltare è la banalizzazione e l’impersonalità di chi ne vuole fare uno sterile atletismo. Mascherato con la musica del tango.

domenica 14 novembre 2010

Inviato alla Biennale



Pochi critici d’arte sono stati anche grandi cronisti d’arte. Uno di questi è certamente Gillo Dorfles. Ormai prossimo al secolo, personalità poliedrica, dotata di raffinato spirito critico ha di persona vissuto i momenti topici della Biennale di Venezia. I suoi articoli più brillanti ed acuti sono ora, per la gioia di appassionati d’arte e non, raccolti in un bel volume della Scheiwiller.


“Inviato alla Biennale” è un vorticoso tour de force fra ismi ed avanguardie, che si legge tutto d’un fiato. D’altronde il secolo scorso non è stato secondo una celebre definizione, il Secolo Breve?


Non perdetevi l’occasione allora di gustarvi un ritratto indimenticabile della Biennale e della storia dell’arte contemporanea italiana del nostro recente passato, dove forse si trovano le chiavi per leggere l’immediato futuro.

La summa del jazz tricolore



Un’opera monumentale di cui si sentiva il bisogno. “Il jazz in Italia”, lavoro eroico per mole e fatica, oltre 1600pagine, uscito per i tipi della EDT, a cura di Adriano Mazzoletti, rappresenta una summa omnia del jazz nel Belpaese dallo swing agli anni Sessanta, ed allo stesso tempo una sontuosa storia del costume e dell’evoluzione sociologica dei costumi e gusti musicali degli italiani nel secolo scorso. Tutti i grandi nomi vi sono contenuti, anche con gustosi aneddoti, da Gorni Kramer a Gaslini, una guida imprescindibile per capire un fenomeno che fino all’avvento della musica leggera e del rockj rappresentava lo spirito libero e ribelle per molte generazioni.

domenica 7 novembre 2010

Fernando Sanchez y Ariadna Naveira, o della pulizia cristallina del movimento



Una chiarezza di esecuzione ineccepibile ed una pulizia di movimento disarmante. Tra le giovani coppie di artisti nel panorama tanguero internazionale Fernando Sanchez y Ariadna Naveira si distinguono oltre che per un talento puro, ma controllato nell’esuberanza giovanile, nell’affrontare il momento topico dell’esibizione con una calma e lucidità da veterani del piso. Nell’ultimo anno ho visto dal vivo ballare questa coppia in 3-4 occasioni e questo è indubbiamente l’elemento distintivo tra loro ed altri artisti pari età, uniti ad un movimento rigoroso e quasi ascetico nella linearità della forma. Ogni passo, dal giro alla colgada sembra strutturarsi in un fotogramma assoluto, ed il superfluo viene sfrondato per arrivare all’essenza ed alla purezza del gesto. In questa semplicità vi è l’arte difficile del rendere agli occhi del pubblico tutto fluido e denso. Una qualità che pochi riescono a vantare. Soprattutto alla luce di un ballo che nelle nuove generazioni pare scontato e ripetitivo nella maggior parte dei casi a scapito soprattutto di una musicalità solamente ritmica ed acefala nella melodia. Fernando e Ariadna, peraltro ottimi didatti alla luce del gradimento riscontrato nelle loro lezioni, riescono con il connubio fra talento e ricerca stilistica a gratificare il pubblico nell’esibizione interpretando un vasto campionario di autori, dalla guardia vieja alla contemporaneità, risultando assolutamente naturali. Ritengo che vedere ballare questi due giovani artisti possa, se si affronta questo momento con la lente di un entomologo, aiutare a comprendere l’essenza del tango, dei suoi movimenti. Le dinamiche affiorano nude e si legano alla musica, e grazie ad una lieve e mai banale ironia generano un mix di emozioni. Perché è l’emozione la linfa vitale dell’arte tanguera.

Grano Rosso Sangue



Da uno dei migliori racconti brevi di Stephen King, un thriller in puro stile stile mid eighties che ha per protagonista una coppia che si imbatte in uno strano paesino del Nebraska popolato solo da adolescenti. In breve tempo scopriranno che tutti gli adulti sono stati sacrificati in nome di una divinità associata al grano. Indimenticabili le scene iniziali e l’atmosfera oppressiva della campagna americana che l’apprenza bucolica sembra solo aumentare con uno stridente contrasto. Un film diventato rapidamente di culto forse perché interpreta con l’efficacia di alcune scene l’eterna rivalsa e voglia di contrasto della dimensione infantile adolescenziale rispetto al mondo degli adulti. Interessante questo terrore e sangue legato al grano, un simbolo dell’arcaicità e della terra madre.

Viveree morire a Los Angeles


Uno dei capolavori di William Friedkin che per cinismo, sguardo disincantato verso la realtà, commistione perversa fra bene e male fa impallidire persino “Il Braccio violento della legge”. Siamo nei dorati anni ottanta , ma la Los Angeles assoluta protagonista di “Vivere e morire in L.A.” è una città sudicia nell’anima, corrotta dove anche le forze della polizia si muovono al di fuori della legalità pur di affermare la propria legge. Ed allora il duello manicheo fra il falsario Willem Dafoe, qui ai massimi della sua arte, ed il poliziotto William Petersen, futura stella del serial C.S.I. perde la sua rigidità ontologica fino sconfinare nella sadica e cieca caccia all’uomo che vede il tutore dell’ordine perdere ogni moralità e remora pur di catturare la sua preda. Siamo forse dalle parti dell’Infernale Quinlan, ma la violenza e la crudeltà sono inedite. Petersen crea prove, commette atti fuori dalla legalità, ma alla fine perde la vita in una trappola creata da se stesso per incastrare il falsario. I lati oscuri della natura umana sono portati alla luce del sole, dallo stile crudo, iperrealistico di Friedkin che chiude questa amara parabola con un finale senza l’hollywoodiano happy ending. Iniziano già le tensioni e le disillusioni degli anni del riflusso, un presagio in anticipo dell’armageddon di fine millennio.

martedì 2 novembre 2010

Anni'70. Quando una squillo va dalla psicanalista.



Il tormentato ed ambiguo rapporto fra un detective privato ed una prostituta d’alto bordo in cura da una psicanalista. È il carburante esplosivo di uno dei film più rappresentativi della scena New Hollywood degli anni’70, “Una squillo per l’ispettore Klute”. I ritmi lenti, ma nevrotici, le luci soffuse e spesso notturne, la sensualità meccanica ed algida di una splendida Jane Fonda ci fanno scivolare quasi inevitabilmente in un noir intimistico ma allo stesso tempo evocativo delle ansie e delle nevrosi di una generazione e di un mondo avvinghiato a quelle che una volta si definivano formalità piccolo borghesi. Indimenticabile il contrasto tra la disillusione della prostituta e malcelato impaccio di un timido ispettore di provincia, interpretato da un Donald Sutherland ai massimi livelli. Il suo sguardo attonito e perennemente incerto vale da solo la pellicola, anche se poi Fonda si accaparrò l’Oscar . Quarant’anni fa, questo film ha scovato il torbido e le pulsioni che si annidano nel perbenismo della middle class con uno stile sobrio, inappuntabile e mai volgare. Un capolavoro da riscoprire, anche perché testimonianza di un cinema ormai storicizzato.